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IA: “strumento affascinante e tremendo”

Art. del sito SETTIMANANEWS

 

"Lo scorso 14 giugno, nel Borgo di Villa Egnazia, in Puglia, Francesco ha aperto la sessione del G7 prima di dedicarsi ad alcuni incontri bilaterali con i capi di Stato e di Governo ivi presenti. Il suo discorso è stato nuovamente dedicato all’intelligenza artificiale, definita «strumento affascinante e tremendo». Si tratta del terzo intervento del pontefice sul tema, dopo il Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2024 («Intelligenza artificiale e pace») e quello per la Giornata mondiale delle comunicazioni («Intelligenza artificiale e sapienza del cuore»).

 

Gentili Signore, illustri Signori!

Mi rivolgo oggi a Voi, Leader del Forum Intergovernativo del G7, con una riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità.

«La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano “saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro” (Es 35,31)»[1]. La scienza e la tecnologia sono dunque prodotti straordinari del potenziale creativo di noi esseri umani[2].

Ebbene, è proprio dall’utilizzo di questo potenziale creativo che Dio ci ha donato che viene alla luce l’intelligenza artificiale.

Quest’ultima, come è noto, è uno strumento estremamente potente, impiegato in tantissime aree dell’agire umano: dalla medicina al mondo del lavoro, dalla cultura all’ambito della comunicazione, dall’educazione alla politica. Ed è ora lecito ipotizzare che il suo uso influenzerà sempre di più il nostro modo di vivere, le nostre relazioni sociali e nel futuro persino la maniera in cui concepiamo la nostra identità di esseri umani[3].

Il tema dell’intelligenza artificiale è, tuttavia, spesso percepito come ambivalente: da un lato, entusiasma per le possibilità che offre, dall’altro genera timore per le conseguenze che lascia presagire. A questo proposito si può dire che tutti noi siamo, anche se in misura diversa, attraversati da due emozioni: siamo entusiasti, quando immaginiamo i progressi che dall’intelligenza artificiale possono derivare, ma, al tempo stesso, siamo impauriti quando constatiamo i pericoli inerenti al suo uso[4].

Non possiamo, del resto, dubitare che l’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenti una vera e propria rivoluzione cognitivo-industriale, che contribuirà alla creazione di un nuovo sistema sociale caratterizzato da complesse trasformazioni epocali. Ad esempio, l’intelligenza artificiale potrebbe permettere una democratizzazione dell’accesso al sapere, il progresso esponenziale della ricerca scientifica, la possibilità di delegare alle macchine i lavori usuranti; ma, al tempo stesso, essa potrebbe portare con sé una più grande ingiustizia fra nazioni avanzate e nazioni in via di sviluppo, fra ceti sociali dominanti e ceti sociali oppressi, mettendo così in pericolo la possibilità di una «cultura dell’incontro» a vantaggio di una «cultura dello scarto».

Uno strumento

La portata di queste complesse trasformazioni è ovviamente legata al rapido sviluppo tecnologico dell’intelligenza artificiale stessa. Proprio questo vigoroso avanzamento tecnologico rende l’intelligenza artificiale uno strumento affascinante e tremendo al tempo stesso ed impone una riflessione all’altezza della situazione.

In tale direzione forse si potrebbe partire dalla costatazione che l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno strumento. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego.

Questo è sicuramente vero, poiché così è stato per ogni utensile costruito dall’essere umano sin dalla notte dei tempi. Questa nostra capacità di costruire utensili, in una quantità e complessità che non ha pari tra i viventi, fa parlare di una condizione tecno-umana: l’essere umano ha da sempre mantenuto una relazione con l’ambiente mediata dagli strumenti che via via produceva. Non è possibile separare la storia dell’uomo e della civilizzazione dalla storia di tali strumenti.

Qualcuno ha voluto leggere in tutto ciò una sorta di mancanza, un deficit, dell’essere umano, come se, a causa di tale carenza, fosse costretto a dare vita alla tecnologia[5]. Uno sguardo attento e oggettivo in realtà ci mostra l’opposto. Viviamo una condizione di ulteriorità rispetto al nostro essere biologico; siamo esseri sbilanciati verso il fuori-di-noi, anzi radicalmente aperti all’oltre. Da qui prende origine la nostra apertura agli altri e a Dio; da qui nasce il potenziale creativo della nostra intelligenza in termini di cultura e di bellezza; da qui, da ultimo, si origina la nostra capacità tecnica. La tecnologia è così una traccia di questa nostra ulteriorità.

Tuttavia, l’uso dei nostri utensili non sempre è univocamente rivolto al bene. Anche se l’essere umano sente dentro di sé una vocazione all’oltre e alla conoscenza vissuta come strumento di bene al servizio dei fratelli e delle sorelle e della casa comune (cfr Gaudium et spes, 16), non sempre questo accade. Anzi, non di rado, proprio grazie alla sua radicale libertà, l’umanità ha pervertito i fini del suo essere trasformandosi in nemica di sé stessa e del pianeta[6].

Stessa sorte possono avere gli strumenti tecnologici. Solo se sarà garantita la loro vocazione al servizio dell’umano, gli strumenti tecnologici riveleranno non solo la grandezza e la dignità unica dell’essere umano, ma anche il mandato che quest’ultimo ha ricevuto di «coltivare e custodire» (cf. Gen 2,15) il pianeta e tutti i suoi abitanti. Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica.

Quando i nostri antenati, infatti, affilarono delle pietre di selce per costruire dei coltelli, li usarono sia per tagliare il pellame per i vestiti sia per uccidersi gli uni gli altri. Lo stesso si potrebbe dire di altre tecnologie molto più avanzate, quali l’energia prodotta dalla fusione degli atomi come avviene sul Sole, che potrebbe essere utilizzata certamente per produrre energia pulita e rinnovabile ma anche per ridurre il nostro pianeta in un cumulo di cenere.

Scelte e responsabilità

L’intelligenza artificiale, però, è uno strumento ancora più complesso. Direi quasi che si tratta di uno strumento sui generis. Così, mentre l’uso di un utensile semplice (come il coltello) è sotto il controllo dell’essere umano che lo utilizza e solo da quest’ultimo dipende un suo buon uso, l’intelligenza artificiale, invece, può adattarsi autonomamente al compito che le viene assegnato e, se progettata con questa modalità, operare scelte indipendenti dall’essere umano per raggiungere l’obiettivo prefissato[7].

Conviene sempre ricordare che la macchina può, in alcune forme e con questi nuovi mezzi, produrre delle scelte algoritmiche. Ciò che la macchina fa è una scelta tecnica tra più possibilità e si basa o su criteri ben definiti o su inferenze statistiche.

L’essere umano, invece, non solo sceglie, ma in cuor suo è capace di decidere. La decisione è un elemento che potremmo definire maggiormente strategico di una scelta e richiede una valutazione pratica. A volte, spesso nel difficile compito del governare, siamo chiamati a decidere con conseguenze anche su molte persone. Da sempre la riflessione umana parla a tale proposito di saggezza, la phronesis della filosofia greca e almeno in parte la sapienza della Sacra Scrittura.

Di fronte ai prodigi delle macchine, che sembrano saper scegliere in maniera indipendente, dobbiamo aver ben chiaro che all’essere umano deve sempre rimanere la decisione, anche con i toni drammatici e urgenti con cui a volte questa si presenta nella nostra vita. Condanneremmo l’umanità a un futuro senza speranza, se sottraessimo alle persone la capacità di decidere su loro stesse e sulla loro vita condannandole a dipendere dalle scelte delle macchine.

Abbiamo bisogno di garantire e tutelare uno spazio di controllo significativo dell’essere umano sul processo di scelta dei programmi di intelligenza artificiale: ne va della stessa dignità umana.

Proprio su questo tema permettetemi di insistere: in un dramma come quello dei conflitti armati è urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette «armi letali autonome» per bandirne l’uso, cominciando già da un impegno fattivo e concreto per introdurre un sempre maggiore e significativo controllo umano. Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita ad un essere umano.

C’è da aggiungere, inoltre, che il buon uso, almeno delle forme avanzate di intelligenza artificiale, non sarà pienamente sotto il controllo né degli utilizzatori né dei programmatori che ne hanno definito gli scopi originari al momento dell’ideazione. E questo è tanto più vero quanto è altamente probabile che, in un futuro non lontano, i programmi di intelligenze artificiali potranno comunicare direttamente gli uni con gli altri, per migliorare le loro performance.

E, se in passato, gli esseri umani che hanno modellato utensili semplici hanno visto la loro esistenza modellata da questi ultimi – il coltello ha permesso loro di sopravvivere al freddo ma anche di sviluppare l’arte della guerra – adesso che gli esseri umani hanno modellato uno strumento complesso vedranno quest’ultimo modellare ancora di più la loro esistenza[8].

Il meccanismo basilare dell’IA

Vorrei ora soffermarmi brevemente sulla complessità dell’intelligenza artificiale. Nella sua essenza l’intelligenza artificiale è un utensile disegnato per la risoluzione di un problema e funziona per mezzo di un concatenamento logico di operazioni algebriche, effettuato su categorie di dati, che sono raffrontati per scoprire delle correlazioni, migliorandone il valore statistico, grazie a un processo di auto-apprendimento, basato sulla ricerca di ulteriori dati e sull’auto-modifica delle sue procedure di calcolo.

L’intelligenza artificiale è così disegnata per risolvere dei problemi specifici, ma per coloro che la utilizzano è spesso irresistibile la tentazione di trarre, a partire dalle soluzioni puntuali che essa propone, delle deduzioni generali, persino di ordine antropologico.

Un buon esempio è l’uso dei programmi disegnati per aiutare i magistrati nelle decisioni relative alla concessione dei domiciliari a detenuti che stanno scontando una pena in un istituto carcerario. In questo caso, si chiede all’intelligenza artificiale di prevedere la probabilità di recidiva del crimine commesso da parte di un condannato a partire da categorie prefissate (tipo di reato, comportamento in prigione, valutazione psicologiche ed altro), permettendo all’intelligenza artificiale di avere accesso a categorie di dati inerenti alla vita privata del detenuto (origine etnica, livello educativo, linea di credito ed altro).

L’uso di una tale metodologia – che rischia a volte di delegare de facto a una macchina l’ultima parola sul destino di una persona – può portare con sé implicitamente il riferimento ai pregiudizi insiti alle categorie di dati utilizzati dall’intelligenza artificiale.

L’essere classificato in un certo gruppo etnico o, più prosaicamente, l’aver commesso anni prima un’infrazione minore (il non avere pagato, per esempio, una multa per una sosta vietata), influenzerà, infatti, la decisione circa la concessione dei domiciliari. Al contrario, l’essere umano è sempre in evoluzione ed è capace di sorprendere con le sue azioni, cosa di cui la macchina non può tenere conto.

C’è da far presente poi che applicazioni simili a questa appena citata subiranno un’accelerazione grazie al fatto che i programmi di intelligenza artificiale saranno sempre più dotati della capacità di interagire direttamente con gli esseri umani (chatbots), sostenendo conversazioni con loro e stabilendo rapporti di vicinanza con loro, spesso molto piacevoli e rassicuranti, in quanto tali programmi di intelligenza artificiale saranno disegnati per imparare a rispondere, in forma personalizzata, ai bisogni fisici e psicologici degli esseri umani.

I limiti da non dimenticare

Dimenticare che l’intelligenza artificiale non è un altro essere umano e che essa non può proporre principi generali, è spesso un grave errore che trae origine o dalla profonda necessità degli esseri umani di trovare una forma stabile di compagnia o da un loro presupposto subcosciente, ossia dal presupposto che le osservazioni ottenute mediante un meccanismo di calcolo siano dotate delle qualità di certezza indiscutibile e di universalità indubbia.

Questo presupposto, tuttavia, è azzardato, come dimostra l’esame dei limiti intrinseci del calcolo stesso. L’intelligenza artificiale usa delle operazioni algebriche da effettuarsi secondo una sequenza logica (per esempio, se il valore di X è superiore a quello di Y, moltiplica X per Y; altrimenti dividi X per Y). Questo metodo di calcolo – il cosiddetto «algoritmo» – non è dotato né di oggettività né di neutralità[9]. Essendo infatti basato sull’algebra, può esaminare solo realtà formalizzate in termini numerici[10].

Non va dimenticato, inoltre, che gli algoritmi disegnati per risolvere problemi molto complessi sono così sofisticati da rendere arduo agli stessi programmatori la comprensione esatta del come essi riescano a raggiungere i loro risultati. Questa tendenza alla sofisticazione rischia di accelerarsi notevolmente con l’introduzione di computer quantistici che non opereranno con circuiti binari (semiconduttori o microchip), ma secondo le leggi, alquanto articolate, della fisica quantistica.

D’altronde, la continua introduzione di microchip sempre più performanti è diventata già una delle cause del predominio dell’uso dell’intelligenza artificiale da parte delle poche nazioni che ne sono dotate.

Sofisticate o meno che siano, la qualità delle risposte che i programmi di intelligenza artificiale forniscono dipendono in ultima istanza dai dati che essi usano e come da questi ultimi vengono strutturati.

Mi permetto di segnalare, infine, un ultimo ambito in cui emerge chiaramente la complessità del meccanismo della cosiddetta intelligenza artificiale generativa (Generative Artificial Intelligence). Nessuno dubita che oggi sono a disposizione magnifici strumenti di accesso alla conoscenza che permettono persino il self-learning e il self-tutoring in una miriade di campi. Molti di noi sono rimasti colpiti dalle applicazioni facilmente disponibili on-line per comporre un testo o produrre un’immagine su qualsiasi tema o soggetto. Particolarmente attratti da questa prospettiva sono gli studenti che, quando devono preparare degli elaborati, ne fanno un uso sproporzionato.

Questi alunni, che spesso sono molto più preparati e abituati all’uso dell’intelligenza artificiale dei loro professori, dimenticano, tuttavia, che la cosiddetta intelligenza artificiale generativa, in senso stretto, non è propriamente «generativa». Quest’ultima, in verità, cerca nei big data delle informazioni e le confeziona nello stile che le è stato richiesto. Non sviluppa concetti o analisi nuove. Ripete quelle che trova, dando loro una forma accattivante. E più trova ripetuta una nozione o una ipotesi, più la considera legittima e valida. Più che «generativa», essa è quindi «rafforzativa», nel senso che riordina i contenuti esistenti, contribuendo a consolidarli, spesso senza controllare se contengano errori o preconcetti.

In questo modo, non solo si corre il rischio di legittimare delle fake news e di irrobustire il vantaggio di una cultura dominante, ma di minare altresì il processo educativo in nuce. L’educazione che dovrebbe fornire agli studenti la possibilità di una riflessione autentica rischia di ridursi a una ripetizione di nozioni, che verranno sempre di più valutate come inoppugnabili, semplicemente in ragione della loro continua riproposizione[11].

Dignità della persona per una proposta etica condivisa

A quanto già detto va ora aggiunta un’osservazione più generale. La stagione di innovazione tecnologica che stiamo attraversando, infatti, si accompagna a una particolare e inedita congiuntura sociale: sui grandi temi del vivere sociale si riesce con sempre minore facilità a trovare intese. Anche in comunità caratterizzate da una certa continuità culturale, si creano spesso accesi dibattiti e confronti che rendono difficile produrre riflessioni e soluzioni politiche condivise, volte a cercare ciò che è bene e giusto.

Oltre la complessità di legittime visioni che caratterizzano la famiglia umana, emerge un fattore che sembra accomunare queste diverse istanze. Si registra come uno smarrimento o quantomeno un’eclissi del senso dell’umano e un’apparente insignificanza del concetto di dignità umana[12]. Sembra che si stia perdendo il valore e il profondo significato di una delle categorie fondamentali dell’Occidente: la categoria di persona umana.

Ed è così che in questa stagione in cui i programmi di intelligenza artificiale interrogano l’essere umano e il suo agire, proprio la debolezza dell’ethos connesso alla percezione del valore e della dignità della persona umana rischia di essere il più grande vulnus nell’implementazione e nello sviluppo di questi sistemi.

Non dobbiamo dimenticare infatti che nessuna innovazione è neutrale. La tecnologia nasce per uno scopo e, nel suo impatto con la società umana, rappresenta sempre una forma di ordine nelle relazioni sociali e una disposizione di potere, che abilita qualcuno a compiere azioni e impedisce ad altri di compierne altre. Questa costitutiva dimensione di potere della tecnologia include sempre, in una maniera più o meno esplicita, la visione del mondo di chi l’ha realizzata e sviluppata.

Questo vale anche per i programmi di intelligenza artificiale. Affinché questi ultimi siano strumenti per la costruzione del bene e di un domani migliore, debbono essere sempre ordinati al bene di ogni essere umano. Devono avere un’ispirazione etica.

La decisione etica, infatti, è quella che tiene conto non solo degli esiti di un’azione, ma anche dei valori in gioco e dei doveri che da questi valori derivano. Per questo ho salutato con favore la firma a Roma, nel 2020, della Rome Call for AI Ethics[13] e il suo sostegno a quella forma di moderazione etica degli algoritmi e dei programmi di intelligenza artificiale che ho chiamato «algoretica»[14]. In un contesto plurale e globale, in cui si mostrano anche sensibilità diverse e gerarchie plurali nelle scale dei valori, sembrerebbe difficile trovare un’unica gerarchia di valori. Ma nell’analisi etica possiamo ricorrere anche ad altri tipi di strumenti: se facciamo fatica a definire un solo insieme di valori globali, possiamo però trovare dei principi condivisi con cui affrontare e sciogliere eventuali dilemmi o conflitti del vivere.

Per questa ragione è nata la Rome Call: nel termine «algoretica» si condensano una serie di principi che si dimostrano essere una piattaforma globale e plurale in grado di trovare il supporto di culture, religioni, organizzazioni internazionali e grandi aziende protagoniste di questo sviluppo.

La politica di cui c’è bisogno

Non possiamo, quindi, nascondere il rischio concreto, poiché insito nel suo meccanismo fondamentale, che l’intelligenza artificiale limiti la visione del mondo a realtà esprimibili in numeri e racchiuse in categorie preconfezionate, estromettendo l’apporto di altre forme di verità e imponendo modelli antropologici, socio-economici e culturali uniformi.

Il paradigma tecnologico incarnato dall’intelligenza artificiale rischia allora di fare spazio a un paradigma ben più pericoloso, che ho già identificato con il nome di «paradigma tecnocratico»[15]. Non possiamo permettere a uno strumento così potente e così indispensabile come l’intelligenza artificiale di rinforzare un tale paradigma, ma anzi, dobbiamo fare dell’intelligenza artificiale un baluardo proprio contro la sua espansione.

Ed è proprio qui che è urgente l’azione politica, come ricorda l’Enciclica Fratelli tutti. Certamente «per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?»[16].

La nostra risposta a queste ultime domande è: no! La politica serve! Voglio ribadire in questa occasione che «davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato […] la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura»[17].

Gentili Signore, illustri Signori!

Questa mia riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità ci conduce così alla considerazione dell’importanza della «sana politica» per guardare con speranza e fiducia al nostro avvenire. Come ho già detto altrove, «la società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali.

Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può «aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (Laudato si’, 191)»[18].

Questo è proprio il caso dell’intelligenza artificiale. Spetta ad ognuno farne buon uso e spetta alla politica creare le condizioni perché un tale buon uso sia possibile e fruttuoso.

Grazie.

[1] Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 1.

[2] Cfr ibid.

[3] Cfr ivi, 2.

[4] Questa ambivalenza fu già scorta da Papa San Paolo VI nel suo Discorso al personale del “Centro Automazione Analisi Linguistica” dell’Aloysianum, del 19 giugno 1964.

[5] Cfr A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983, 43.

[6] Lett. enc Laudato si’ (24 maggio 2015), 102-114.

[7] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 3.

[8] Le intuizioni di Marshall McLuhan e di John M. Culkin sono particolarmente pertinenti alle conseguenze dell’uso dell’intelligenza artificiale.

[9] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.

[10] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 4.

[11] Cfr ivi, 3 e 7.

[12] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana (2 aprile 2024).

[13] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.

[14] Cfr Discorso ai partecipanti al Convegno «Promoting Digital Child Dignity – From Concet to Action», 14 novembre 2019; Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.

[15] Per una più ampia esposizione, rimando alla mia Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune del 24 maggio 2015.

[16] Lettera enc. Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (3 ottobre 2020), 176.

[17] Ivi, 178.

[18] Ivi, 179.

Dall’isolamento alla fraternità

fraternità

Articolo di SETTIMANANEWS

Ognuno sta solo sul cuor della terra,
trafitto da un raggio di sole;
ed è subito sera.

La lirica Ed è subito sera, di Salvatore Quasimodo (1901-1968), è un esempio di poesia ermetica: sono poche parole, penetranti come un graffito inciso su pietra, che concentrano l’esperienza profonda e drammatica dell’autore. Pubblicata nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, era già comparsa dodici anni prima come terzina finale di un componimento più ampio, dal significativo titolo Solitudini. Colpisce il ventaglio di evocazioni suscitate dal poeta siciliano in tre sole righe; evocazioni contrastanti, già a partire dalla prima parola: «ognuno».

«Ognuno sta solo sul cuor della terra»

Il pronome indefinito «ognuno» richiama sia il singolo che la comunità: indica ciascun essere umano preso a sé e nello stesso tempo si riferisce all’insieme degli esseri umani. La solitudine, paradossalmente, ci isola e ci unisce: tutti la avvertiamo, ciascuno a modo suo; ma proprio perché nessuno ne è immune, la condividiamo con gli altri.

Una certa dose di solitudine è connaturale all’essere umano, è una condizione esistenziale, che in misura e modi differenti tocca tutti. La solitudine si declina all’io e al noi, è muro e ponte insieme.

La tradizione culturale europea, del resto, riunisce le antiche antropologie biblica e greca, coniugando l’io con il noi, il muretto di protezione con il ponte di collegamento.

La Bibbia, nelle sue prime paradigmatiche pagine, già almeno sei secoli prima di Cristo attribuisce alla creatura umana una dignità tale da essere «immagine di Dio»: non semplicemente in quanto individuo singolo e isolato, ma in quanto essere in relazione: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). E Aristotele, un paio di secoli dopo, definisce l’uomo sia «animale logico» sia «animale politico» (Politica, 1253a 9-10): per lui l’essere umano è individuo razionale e relazionale insieme.

«Nessun uomo è un’isola» scriveva, esattamente quattro secoli fa, il poeta John Donne (1572-1631). Eppure spesso ci sentiamo soli. Avvertiamo la fatica di comunicare: molte sensazioni, esperienze, emozioni e riflessioni non riusciamo a trasmetterle o non vogliamo farlo.

Alcuni muretti, certo, sono necessari attorno all’io: per custodire l’intimità personale, impedire di violarla a chi non ne ha diritto e coltivare le proprie attitudini. Esiste così una solitudine «buona» e cercata, presidio della dignità individuale, della profondità spirituale di ognuno, della peculiare storia di ciascuno.

Aveva però ragione John Donne: sebbene una dimensione del mio essere appaia come un’isola, per non annegare nell’alta marea dell’egoismo occorre che l’io getti dei ponti verso gli altri esseri umani. L’isolamento richiama il mito di Narciso, il giovane bellissimo che, insensibile all’amore per gli altri, fu condannato per sempre dagli déi ad innamorarsi perdutamente della propria immagine riflessa in una pozza d’acqua, contemplandola fino a morirne angosciato.

Moltiplicare i ponti

Sarà dunque possibile per «ognuno» proteggere la propria individualità senza cadere nel narcisismo? Si potrà superare l’isolamento, mantenendo la solitudine «buona» e cercata e vincendo quella «cattiva» e subita, la quale ci porta a tagliare i contatti, a ripiegarci su noi stessi e rimanere chiusi entro la cornice del nostro piccolo specchio?

Sono tanti i segni dell’isolamento e del narcisismo. Gli indicatori sociali segnalano, in Italia, un aumento del disagio a diversi livelli. Molti anziani lamentano la solitudine: e se questo si può considerare un classico, stupisce invece che alcune spie dell’isolamento sociale riguardino i giovani. Crescono negli ultimi anni i suicidi degli adolescenti; si moltiplicano gli episodi di bullismo, le baby gang e gli abbandoni scolastici; aumentano anche tra i ragazzi le patologie psichiche, le forme di autolesionismo, i disturbi alimentari, le dipendenze da gioco d’azzardo, pornografia, droghe e alcol.

Non si può addossare comodamente tutta la colpa al Covid-19, per quanto non sia innocente. La pandemia ha sicuramente aggravato i disagi, ma spesso non ha fatto altro che svelare e accelerare dei processi già in atto. Queste solitudini, insieme a quelle causate dalle molte povertà di italiani e stranieri, sono sintomi da non sottovalutare.

Occorre perciò moltiplicare i ponti. Senza scomodare la stupenda città di Venezia, formata da 121 isole e 436 ponti, possiamo pensare alla nostra Modena, definita da alcuni «la Venezia della via Emilia», perché caratterizzata fino a poco più di un secolo fa da numerosi canali, ora sotterranei.

Ne restano tracce nella toponomastica stradale: Canalgrande, Canalchiaro, Canalino, Canaletto, Fonte d’Abisso, Naviglio… Alcune zone della città e dei dintorni erano piccole isole, unite da ponti gettati tra una riva e l’altra. Il problema di «ognuno», che «sta solo sul cuor della terra», è di utilizzare le pietre – le proprie risorse – non solo per costruire i muretti che custodiscono la solitudine «buona», ma anche per costruire i ponti che vincono la solitudine «cattiva». In questo modo, pur essendo isole, siamo collegati tra di noi e diventiamo città abitabili.

«Trafitto da un raggio di sole»

Il paradosso poetico continua. Il raggio di sole esprime vitalità, luce, calore; l’esistenza umana è percorsa da affetti, speranze, sogni, gioie, progetti. Questo raggio, però, non si limita a colpire o investire, ma «trafigge» come una lancia: la vita è attraversata anche da sofferenze, delusioni, tristezze, fallimenti.

Lo stesso raggio riscalda e trafigge, illumina e ferisce. La risorsa può diventare un’arma. Le parole del poeta sono talmente concentrate da lasciare spazio alle più diverse interpretazioni. A me piace pensare che questo raggio di sole sia l’amore, e che proprio l’amore riesca a cementare le pietre che tengono insieme i ponti da gettare tra noi.

Le pietre che formano un muro non necessitano di molto cemento, perché la forza di gravità ne favorisce la coesione e la saldezza. Le pietre che formano un ponte, invece, hanno bisogno di tanto cemento, perché altrimenti tendono a cadere. Per custodire la solitudine «buona» basta un po’ di amore per se stessi, un pizzico di autostima; per vincere la solitudine «cattiva» occorre invece un surplus di amore per gli altri, un continuo allenamento al dono di sé.

L’amore è dunque raggio di sole che dà energia ed è lancia che trafigge. È raggio di sole: se non vivessimo l’esperienza di essere amati e di amare, da quando spuntiamo nel grembo di nostra madre fino a quando emettiamo l’ultimo respiro, la vita diventerebbe fredda e buia, come quelle giornate tardo autunnali nelle quali un’umida nebbia avvolge ogni cosa e perfino i colori sembrano scomparsi.

L’amore accende e scalda, illumina e rinvigorisce. Quando una persona ama e si sente amata, vede il mondo a colori: sia il proprio mondo interiore, con le sue energie intellettuali, affettive e spirituali, sia il mondo esterno, dalla natura agli avvenimenti, dalle persone alle cose.

Ma quando una persona non ama e non si sente amata, l’intero mondo piomba nel grigiore: quello interiore si scompensa e intristisce, deprimendosi, e quello esterno diventa ostile e insopportabile, generando un senso di frustrazione e vittimismo.

Là dove si fa spazio l’amore, però, si crea anche uno spazio per il dolore. Colui che ama di amore autentico, sente i contraccolpi della situazione della persona amata: se l’amato soffre, il suo dolore si riflette su chi lo ama; e se la persona amata delude, la ricaduta su chi ama è forte. Genitori e figli, coppie, amici, educatori: tutti coloro che amano subiscono delle ripercussioni.

Questo processo è comunque sano e fisiologico, sintomo di buone relazioni. L’indifferenza, al contrario, è segno di rapporti inconsistenti e freddi. Chi decide di amare davvero, coinvolgendosi nell’esistenza di altri, si prepara dunque anche a soffrire di più: ma sa che ne vale la pena, perché sperimenta che solo nell’amore e nella condivisione la vita ha senso, è piena, esprime tutte le sue potenzialità. Chi al contrario decide di restare indifferente, evitare ogni coinvolgimento e pensare solo a se stesso, prova sul momento meno fastidi, ma si rende conto ben presto che questa solitudine lo impoverisce, lo rattrista e gli toglie vigore.

Siamo fatti per la relazione, siamo messi al mondo per amare. Il credente sa che siamo così perché ci ha creati un Dio che è amore (cf. Prima Lettera di Giovanni 4,8.16) e siamo fratelli di Cristo, che si è fatto uno di noi per amore. Ma tutti, credenti e non credenti, quando ascoltano l’intimo del loro cuore, sentono che la vita si svela e si ossigena amando, e che invece si inaridisce e si avvelena chiudendosi nel proprio guscio.

L’amore che si ammala

Non è però solo questo amore, sano e fisiologico, a trafiggere. Purtroppo qualche volta l’amore si ammala, diventa brama di possesso anziché proposta di dono, e quando non può vantare l’esclusiva sulla persona amata mira a distruggerla. Le tragiche violenze sulle donne, che giungono perfino all’assassinio, sono spesso le conseguenze di amori patologici.

Non credo si debba evocare tanto il patriarcato – ormai da tempo tramontato da noi – quanto il maschilismo, purtroppo presente, radicato e attivo; un atteggiamento innestato a sua volta nella perdita del senso del dono. Quanto più una civiltà si costruisce su grezzi rapporti di forza e freddi calcoli, tanto meno spazio pubblico resta alle donne; quanto più, all’inverso, una civiltà si edifica sulla cura delle relazioni, sulla finezza e profondità d’animo e di pensiero, tanto più emerge il protagonismo femminile.

Maschile e femminile si integrano, sia nelle singole persone sia nel tessuto sociale, ma un equilibrio effettivo è ancora lontano: pensiamo solo alla disparità di trattamento tra uomini e donne nel campo lavorativo e professionale. Il clima troppo spesso teso e violento della nostra società non favorisce la profondità e la raffinatezza e contribuisce ad emarginare e isolare le donne.

Una di loro, la geniale poetessa Alda Merini (1931-2009), che visse anche la terribile esperienza del manicomio, lasciò spesso risuonare la nota della solitudine, con delicatezza e profondità. Basta citare la lirica intitolata proprio Solitudine:

«S’anche ti lascerò per breve tempo, / solitudine mia, se mi trascina / l’amore, tornerò, stanne pur certa; / i sentimenti cedono, tu resti». Amore e solitudine per lei sono inscindibili: se si separano, è solo per breve tempo. Davvero è l’amore quel raggio di sole che trafigge.

«Ed è subito sera»

Quasimodo sigilla la terzina con l’allusione alla morte. La «sera», con le immagini correlate del tramonto e del buio, è una delle metafore più efficaci della fine della vita umana. Dalla contemplazione della sera, Ugo Foscolo (1778-1827), in un sonetto del 1803, trae suggestioni memorabili: «Forse perché della fatal quïete / tu sei l’imago a me sì cara, vieni, / o Sera!» (vv. 1-3).

Pur non essendo credente – la morte è per lui il «nulla eterno» (v. 10) – il poeta, pensando ad essa, è colto da sentimenti lieti e non avverte timore o paura. A differenza di altri autori, Foscolo non esalta il suicidio e neppure disprezza la vita: semplicemente l’orizzonte della sera evoca in lui la «pace» e, di riflesso, provoca un benefico sonno che gli permette di affrontare più tranquillamente questo agitato «reo tempo» (v. 11): «Mentre io guardo la tua pace, dorme / quello spirto guerrier ch’entro mi rugge» (vv. 13-14).

I cristiani guardano alla morte non come il «nulla eterno», ma come il passaggio verso la pienezza. Riprendendo le due immagini già emerse, nella prospettiva credente la morte è un ponte più che un muro. Non è cioè la rottura completa delle relazioni, come se la vita andasse a sbattere contro una parete che frantuma per sempre sogni, progetti, sacrifici, gioie… in una solitudine silenziosa che cancella tutto. Piuttosto, la morte è per ciascuno il compimento delle relazioni, attraverso un ponte stretto – e vertiginoso – che porta al cospetto di Dio, giudice misericordioso.

Davanti alla luce del suo volto sarà trasparente il bene da ciascuno compiuto, che andrà valorizzato, e il male commesso, che andrà purificato. Non dunque un muro che isola per sempre la persona, ma un ponte che la porta nel cuore della città. La vita eterna, per i cristiani, avrà la qualità dell’amore vissuto nella vita terrena e – poiché di amore si tratta e dunque di relazioni – sarà pienezza dei legami riusciti e riscatto dei legami feriti. Ritroveremo, trasfigurati, gli affetti e le persone care.

Se tuttavia anche un non credente, come Foscolo, può vedere nella morte un’alleata e non una nemica, è perché è possibile accoglierla come sigillo dell’esistenza, pur non avendo la fede, almeno quando si riflette a partire dalla propria singola condizione.

Così, meditando sulla «sera» della vita, «dorme» lo «spirto guerrier» del poeta, e l’inquietudine cede il passo alla calma. La morte, insomma, relativizza gli affanni e le agitazioni, i tormenti e le rabbie. Misurarsi con la fine della vita significa placare le passioni, ridimensionare battaglie che sul momento paiono decisive, abbassare rancore e odio, smorzare istinti bellicosi e distruttivi. Se tutti, credenti e non, adottassimo lo sguardo dei poeti sulla «sera», diminuirebbe il livello del conflitto sociale.

Iperconnessi ma isolati

Lo «spirto guerrier» del Foscolo fa venire in mente oggi, in epoca digitale, i cosiddetti keyboard warriors, letteralmente «i guerrieri da tastiera», che rappresentano uno dei simboli più eloquenti della solitudine rabbiosa. Sono chiamati così coloro che in rete usano i social per attaccare, offendere, screditare e minacciare altri. Il fenomeno è preoccupante e praticamente incontrollabile. Probabilmente lo schermo del computer o del cellulare contribuisce a creare in alcuni l’illusione di essere intangibili, immuni, senza dover rispondere delle proprie affermazioni.

Talvolta le persone fragili, che incamerano nel cuore rancori non altrimenti sfogati, trovano nel digitale un canale apparentemente libero, dove poter riversare le proprie frustrazioni. Nascono così le fake news, alle quali purtroppo tanti abboccano, rilanciandole e gettando pietre addosso alle vittime di turno; qualche suicidio è riconducibile ai loro vili attacchi.

In italiano non vengono detti «guerrieri», ma «leoni» da tastiera: però tanto leoni non sono, se si pensa che non avrebbero il coraggio di dire le stesse cose, con gli stessi toni, se si trovassero a parlare direttamente con le persone contro cui si avventano.

Questo triste fenomeno viene alimentato anche da alcuni social, che favoriscono le «bolle mediatiche» o «bolle di filtraggio». Quando navigo sul web, lascio in rete delle tracce, intercettate dagli algoritmi che colgono le mie preferenze e mi rimandano informazioni e proposte anche commerciali conformi; in tal modo irrobustiscono le mie convinzioni, riducendo gradualmente il confronto con opinioni e gusti differenti dai miei.

A questo si aggiunge il fatto che, entrando a far parte di qualsiasi social (FacebookInstagramTwitterTik TokWhatsApp e altri), partecipo a un «circolo» digitale dove incontro in realtà quelli che la pensano come me, pena l’esclusione dal gruppo. Si creano così, come notano alcuni studiosi, delle «camere dell’eco» (echo-chambers), nelle quali non ci si confronta di fatto con idee diverse dalle proprie, ma ciascuno ascolta l’eco delle sue opinioni e gradualmente finisce per rafforzarle.

Il paradosso è evidente: in un’epoca nella quale la comunicazione è istantanea e ciascuno può entrare in rete con miliardi di persone, si rischia un vero e proprio «isolamento sociale». Il pericolo della manipolazione e della polarizzazione è tutt’altro che teorico, e la dimensione civica ne risulta infragilita.

Chiunque oggi voglia sottrarsi a questo «spirto guerrier», a questo clima sociale teso e violento, rischia di provare quell’esperienza di isolamento dagli altri magistralmente descritta da Giacomo Leopardi (1798-1837) nella lirica Il passero solitario, che è lui stesso: «quasi fuggo lontano, quasi romito» (vv. 23-24).

Ma lo stesso poeta di Recanati, in una delle sue ultime liriche, La ginestra, o fiore del deserto, apre uno spiraglio nel cerchio della solitudine, con la possibilità di superare violenze, discordie e tensioni e formare tra gli esseri umani una «social catena» (v. 149), anche per arginare lo strapotere della natura. Arriva infatti a dire che la persona di «nobil natura» (v. 111) «tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor» (vv. 130-132).

Dalla poesia alla pratica della fraternità

San Geminiano è pienamente inserito nella sua città ed è nello stesso tempo aperto alle istanze provenienti dai confini estremi dell’impero, come dimostra il suo viaggio a Costantinopoli. La sua figura ci ricorda che non esiste quella contrapposizione, oggi spesso percorsa, tra identità e dialogo.

L’identità umana, come quella cristiana, si scopre e si rafforza nel dialogo. Ogni «bolla», mediatica o meno, è un falso consolidamento dell’identità e rischia in realtà di rinsaldare un’identità debole e incerta, incapace di lasciarsi mettere in discussione ed integrare. E ogni dialogo che non parta da un’identità matura rischia di tradursi in indifferenza e qualunquismo.

A scanso di equivoci: internet è utilissimo, prezioso e imprescindibile e quasi nessuno di noi potrebbe ormai farne a meno. Oltretutto, cosa sarebbe capitato se nei periodi più intensi della pandemia non avessimo avuto a disposizione il digitale? La solitudine sarebbe stata ancora più devastante. E cosa succederebbe se tante persone sole non potessero collegarsi, con i software di videoconferenza, ai loro cari e ai loro amici, o ricevere notizie di ciò che accade nel mondo? A tutti i livelli della vita sociale il digitale è un’opportunità incredibile, un dono inestimabile: come sempre, decisivo è saperlo padroneggiare e non diventarne schiavi.

La sfida per la città, e anche per la Chiesa che vi è vitalmente inserita, è di spegnere l’aggressività assumendo lo stile del buon samaritano, secondo le parole che papa Francesco rivolge al mondo, non solo ai cattolici e ai credenti, nell’Enciclica Fratelli tutti (cf. cap. II).

La «sera» dice quanto siamo fragili e passeggeri in questa vita: farci conquistare dallo «spirto guerrier», che produce in noi stessi e negli altri immensa solitudine, oppure, al contrario, approfittare del «raggio di sole» per amare il prossimo di oggi e di domani, vincendo l’isolamento con la fraternità? Questa è l’alternativa epocale, a cui sono appese le sorti dell’umanità.

Nella nota parabola del Vangelo di Luca (10,25-37) il Samaritano è Cristo, che si cala sulle ferite umane e le allevia. Ma proprio perché lui stesso, alla fine della parabola, invita ciascuno a «fare lo stesso», questa parabola tocca ciascuno di noi.

La parte migliore

L’uomo bastonato e lasciato mezzo morto dai briganti al ciglio della strada è la persona sola e scartata, provata e tramortita dalla vita e dagli egoismi degli altri. Il sacerdote e il levita, che guardano e tirano dritto senza soccorrere il ferito, sono gli indifferenti, che pensano solo ai loro tempi, ritmi e bisogni.

Lo straniero di Samaria che, provando compassione, si ferma e soccorre il malcapitato, è il «prossimo», che si lascia toccare dalle ferite altrui, si prende cura rimettendoci del proprio (tempo, energie, sostanze, denaro) e rischia, fermandosi, di essere a sua volta preso a bastonate dai briganti, forse ancora nascosti nei paraggi.

Questo straniero è la parte migliore di ciascuno di noi, quella che – se attivata – estrae dal nostro cuore le risorse più belle; quella che ci fa passare dal samaritano al «buon» samaritano. Lo straniero, a differenza dei due concittadini, si fa prossimo del ferito, perché supera i muri etnici e religiosi e getta un ponte di fraternità verso di lui.

In questa bella figura si concentrano tutti gli ingredienti della fraternità, che è la reazione più efficace contro la solitudine. Più si moltiplicano i buoni samaritani, più si riducono i feriti dall’arma della solitudine. Il samaritano rappresenta tutti coloro che operano per il bene dei fratelli e delle sorelle, e non sono affatto pochi.

Quelli che offendono, feriscono e distruggono, fanno rumore e destano impressione; chi soccorre, cura e costruisce, lo fa invece silenziosamente; questa disparità crea la sensazione che il mondo sia in balìa degli haters e dei violenti, mentre il mondo è preziosamente intessuto di gesti nascosti amorevoli e solidali.

Nella nostra città e diocesi sono tanti, anche tra i giovani, i buoni samaritani che contrastano l’isolamento con la pratica della fraternità. Sono tutti coloro che dentro le case e gli appartamenti, nei luoghi di incontro, di lavoro, di studio e di cura, nelle comunità civili e religiose, nei mondi digitali, negli spazi sociali ed ecclesiali, operano quotidianamente nella gratuità e nel volontariato, chinandosi sulle ferite altrui e versandovi l’olio dell’amore e il vino della speranza.

Sono tutti coloro che spendono tempo, energie e risorse al servizio dei bastonati, rischiando di prendere a loro volta qualche colpo dai briganti sempre in agguato. Sono coloro che, non limitandosi al necessario soccorso immediato, accompagnano il ferito nella locanda, alleandosi con altri soccorritori e impegnandosi per il futuro: anche i responsabili delle istituzioni, funzionari, amministratori e politici trovano nel buon samaritano il modello del loro agire per il bene comune.

Il nostro grande Patrono San Geminiano, immagine fedele del Buon Samaritano, ottenga a tutti noi la grazia di vincere la solitudine e vivere la fraternità.

Modena, 31 gennaio 2024, Solennità di San Geminiano

+ Erio Castellucci,
Arcivescovo-Abate di Modena-Nonantola

 

Italia: non un paese per poveri

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La proposta di tassare le successioni ereditarie, avanzata dal segretario del Pd Enrico Letta, ha suscitato un coro di proteste, ricevendo anche un chiaro dissenso anche da parte del premier Draghi, che l’ha liquidata con un secco: «Questo non è il momento di prendere i soldi dai cittadini ma di darli».

Dall’interno della maggioranza di governo, è subito intervenuto anche Matteo Salvini: «Sono pienamente d’accordo con il presidente Draghi: l’ultima cosa di cui hanno bisogno gli italiani adesso sono nuove tasse». Aggiungendo anche una sua reazione: «Sono allucinato dal fatto che il segretario del partito democratico possa immaginare una nuova tassa».

Molto critica anche Italia Viva che, con il capogruppo al Senato Davide Faraone, definisce la proposta del Pd «fuori dal mondo».

Non parliamo dei quotidiani dell’area di destra… L’eventuale imposta viene definita un «prelievo sui piccoli patrimoni che si lasciano in eredità ai parenti dopo una vita di risparmi» («La Verità» 21 maggio 2021). Nella stessa data «Il Giornale» titola «Sanguisughe a sinistra» («Il Giornale»); «Il Tempo» definisce quella di Letta una proposta che «semina odio mettendo contro ricchi e poveri, giovani e vecchi». A prendere atto della sua impopolarità è un titolo, su questo tema, de «Il Resto del Carlino»: «I democratici si fanno male da soli».

L’insegnamento sociale della Chiesa

Ma ascoltiamo Letta: «La proposta è quella di una dote ai 18enni che possa aiutare i giovani a prendere una casa, trovare un lavoro, pagarsi gli studi senza dover subire il divario con i coetanei che vengono da famiglie che possono pagare per loro. Per essere seri va finanziata non a debito (lo ripagherebbero loro), ma chiedendo all’1% più ricco del Paese di pagarla con la tassa di successione».

In concreto, il segretario del Pd ha parlato di tassare le successioni superiori a un milione di euro (due miliardi di vecchie lire…). Una cifra che non corrisponde esattamente all’idea del «piccolo patrimonio» accumulato a forza di risparmi.

Ricordo ai miei lettori che non sono certo un fan del Pd. In quasi tutti i miei chiaroscuri non manco di denunziarne la politica e, più a monte, l’impostazione ideologica. Ma qui siamo davanti a una proposta che corrisponde, nella mia ottica, all’insegnamento sociale della Chiesa e che credo doveroso, anche a costo dell’impopolarità, difendere.

Il Paese europeo che tutela di più i patrimoni

Forse è bene ricordare che l’Italia è probabilmente il Paese europeo in cui i grandi patrimoni sono più tutelati. Lo confermano i dati relativi alle imposte di successione secondo il rapporto dell’Ocse, pubblicato pochi giorni fa. La tassa di successione italiana è infatti la più bassa a livello europeo, con aliquote che oscillano tra il 4 e l’8%, con l’esenzione fio a un milione di euro. In Germania la tassa di successione oscilla tra il 7% e il 50%, in Spagna tra il 34% e l’86%, in Francia tra 5% al 60%, in Gran Bretagna è del 40%.

Ciò comporta, evidentemente, un contributo assai scarso degli italiani più benestanti alle finanze dello Stato: nel 2018, 820 milioni ovvero lo 0,05% del Pil In Francia, per esempio, sempre nel 2018 il gettito dell’imposta su successioni e donazioni è risultato pari a 14,3 miliardi di euro, cioè lo 0,61% del Pil: in altre parole, quasi tredici volte quello italiano.

A quota 0,20-0,25% del Pil troviamo invece la Germania (6,8 miliardi), il Regno Unito (5,9 miliardi al cambio del 2018) e la Spagna (2,7 miliardi), tutti Paesi che riescono a incassare quasi cinque volte l’Italia e che quindi hanno la possibilità di redistribuire la ricchezza attraverso politiche sociali adeguate (senza indebitarsi).

In concreto, se si considera l’ipotesi di una eredità del valore netto di un milione di euro, lasciata da un genitore al proprio figlio, in Italia la franchigia di un milione è sufficiente a evitare completamente l’imposizione, mentre in Spagna l’imposta ammonterebbe a circa 335mila euro, in Francia a 270mila, nel Regno Unito a 245mila e in Germania a 115mila.

Tutto ciò si verifica in un contesto in cui il 10% più ricco della popolazione italiana (in termini patrimoniali) possiede oggi oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione. Confrontando il vertice della piramide della ricchezza con i decili più poveri, il risultato è ancora più sconfortante. Il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero.

La posizione patrimoniale netta dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana («Sole24ore», 20 gennaio 2020). «Tre miliardari», si legge nel titolo dell’articolo, «sono più ricchi di sei milioni di poveri».

Gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti hanno calcolato che negli ultimi 20 anni i 5.000 italiani più ricchi (pari allo 0,01% della popolazione) hanno visto «triplicare» la propria quota di patrimoni complessivi, mentre il 50% più povero ha accusato «una riduzione dell’80% della ricchezza netta». E proprio i passaggi ereditari vengono identificati come «il principale motivo di concentrazione della ricchezza».

Né va meglio se dal patrimonio si passa al reddito. L’Italia risulta, tra gli Stati europei più popolosi, quello in cui il divario di reddito tra i ricchi e i poveri è più accentuato: nel nostro Paese il 20% della popolazione con i redditi più alti può contare su entrate più di sei volte superiori a quelle di coloro che rientrano nel 20% più povero. Una forbice che nell’ultimo decennio si è allargata: la differenza era di 5,21 volte nel 2008, è diventata appunto di 6,09 volte nel 2018.

I figli dei ricchi e i figli dei poveri

Le ricadute sulle nuove generazioni sono inevitabili e devastanti. Il nuovo dossier di Oxfam informa che in Italia l’“ascensore sociale” è fermo: un terzo dei figli di genitori più poveri è destinato a rimanere bloccato al piano più basso dell’edificio sociale, mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40% più ricco è in grado di raggiungere posizioni di vertice.

Gli sforzi individuali, la dedizione, il talento sono sempre meno determinanti per il miglioramento della propria posizione economica e sociale rispetto alla famiglia d’origine. E si capisce. Le disuguaglianze di reddito dei genitori diventano oggi disuguaglianze di istruzione dei figli che si trasformano, a loro volta, in disuguaglianze di reddito, replicando quelle che già esistevano tra i rispettivi genitori. Come ha commentato Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia: «Viviamo in un’epoca e in un paese in cui ricchi sono soprattutto i figli dei ricchi e poveri i figli dei poveri».

Forse a questo punto si capisce che la proposta di Letta, di aiutare i diciottenni per far sì che anche i più disagiati possano aspirare a un futuro diverso, col (piccolo) contributo economico delle fasce privilegiate, non è così «allucinante» e «fuori dal mondo» come la sia è accusata di essere.

Si continua a parlare di una particolare attenzione da dedicare alle nuove generazioni, particolarmente penalizzate dalla pandemia. Si evita però accuratamente di precisare che le conseguenze non sono state uguali per chi apparteneva a una famiglia di ampie risorse economiche e logistiche e i figli dei poveri.

Non è «odio», come ci si vuol far credere, ricordare questa fondamentale differenza e tenerne conto nell’impostare un politica volta a costruire il futuro del nostro Paese. O vogliamo che l’Italia che verrà sia ancora quella delle stridenti disuguaglianze che oggi la lacerano e – quelle sì – spingono i più diseredati, se non all’odio, alla disaffezione verso uno Stato che fa finta di non vederli?

  • Dal blog dell’autore pubblicato su Tuttavia.

 

Lettera ai vescovi italiani

(dal sito: SETTIMANANEWS)

 

Cari pastori,

da semplice laico cristiano oso rivolgermi a voi. Che la casa bruci ce lo dicono i bollettini quotidiani dei morti e dei contagi, le famiglie che non ce la fanno, i ragazzi privati della scuola, la conclamata impotenza della politica culminata in una irresponsabile crisi di governo che ha costretto il presidente della Repubblica a chiamare in servizio l’italiano più autorevole. Con parole gravi che hanno dato il senso della portata drammatica della congiuntura.

In questo tornante così speciale della nostra storia civile, penso sia utile e attesa una vostra parola.

Processo per un Sinodo italiano

Papa Francesco, la figura che, più di ogni altra nel mondo, con gesti e parole, si è mostrata all’altezza della crisi epocale che ci ha investito, ha dato una scossa alla nostra Chiesa italiana. Lo ha fatto in occasione del suo incontro con l’Ufficio catechistico della CEI. Con quel linguaggio franco e diretto che gli è proprio, ma che, ne sono sicuro, rivela l’amore speciale che, in quanto vescovo di Roma e primate d’Italia, egli porta alla nostra Chiesa. Cui ha chiesto di riprendere il suo appello a un percorso sinodale, appello levato in occasione del convegno ecclesiale del 2015 a Firenze.

Francesco propone un Sinodo e, più ancora, lo stile sinodale come modo di essere e di vivere della nostra Chiesa. Con questo spirito e in forza dell'”indole secolare” che il Concilio attribuisce a noi fedeli laici, mi permetto di fare cenno ad alcuni segni (problematici) di questo nostro tempo che ci interpellano e che esigono una parola, un giudizio, un nostro concreto impegno. Con una premessa.

Abbiamo alle spalle una stagione – mi esprimo con franchezza – nella quale non tanto la Chiesa quanto i vertici della CEI non hanno lesinato un interventismo politico sui vertici della politica: partiti, parlamento, governo. In nome di “principi non negoziabili” evocati un po’ astrattamente. Cioè non mediati culturalmente e politicamente dentro la nostra società democratica ed eticamente pluralista. Al prezzo di una doppia mortificazione: della collegialità dei pastori e dell’autonomia responsabile dei laici politicamente impegnati. Forse anche a causa di questo retaggio oggi scontiamo inerzia e mutismo.

La stagione difficile

Questo tempo nuovo e difficile ci chiama in causa. Non – sul punto Francesco è chiarissimo – secondo il modulo dell’ingerenza nella politica intesa come contesa tra le parti. Ma, questo sì, come cura per la Politica con la maiuscola. Sul registro della radicalità evangelica e della profezia, che giudica, incalza, sferza la politica. Senza fare calcoli di convenienza e sfidando il facile consenso.

Con questo spirito e profittando della consultazione delle realtà sociali cui si è impegnato il governo – uscente ed entrante – ai fini della predisposizione del Next Generation EU, la CEI, formazione sociale sui generis, potrebbe anche segnalare pubblicamente e in trasparenza a parlamento e governo talune priorità a lei care.

Chi è avanti negli anni ricorda qualche caso di un tempo lontano nel quale la Chiesa italiana si mostrò capace di operare un discernimento puntuale e di levare una voce che ebbe eco nel paese: il convegno ecclesiale del 1976 su “Evangelizzazione e promozione umana”, il documento del 1981 su La Chiesa italiana e le prospettive del paese e quello del 1991 titolato Educare alla legalità. Come accennato, la singolarissima criticità del momento meriterebbe una parola mirata sulle questioni che più urgono.

La prima: la gestione della pandemia. Sono manifestamente in gioco questioni di natura etica. La difesa della vita, la dignità e l’uguaglianza delle persone non sono prive di implicazioni pratiche.

Penso al doveroso rispetto delle misure di sicurezza e al principio di precauzione. Primari rispetto alle pur legittime esigenze dell’economia. Vanno condannate le posizioni che occhieggiano al negazionismo.

Penso al netto ripudio della teoria secondo la quale la tutela della vita e della salute delle persone anziane o malate possa essere sacrificata.

Penso al concreto assetto del nostro sistema sanitario. Un bene prezioso nel suo carattere universalistico, ma afflitto da problemi: i tagli operati negli ultimi dieci anni, il depauperamento della medicina di base, l’ingerenza indebita della politica, una regionalizzazione che ha rivelato i suoi limiti.

Coesione sociale e demografia

Seconda: l’acutissima questione sociale. Qui si richiederebbe il coraggio profetico di una posizione controcorrente. Si profilano disoccupazione, precarietà, povertà di dimensioni senza precedenti dal dopoguerra. La politica discute di come dosare sussidi/ristori (per definizione a termine) e investimenti. Ma quasi nessuno ha il coraggio di porre, nei termini adeguati al bisogno, la questione fiscale. La patrimoniale è parola tabù per i politici.

Ma conta la sostanza, non la parola. I più audaci timidamente balbettano di un limitato contributo attinto dai grandi patrimoni. Troppo poco: si ricaverebbero modeste risorse. Ben altro è necessario. Tutti i contribuenti – lavoratori e pensionati – dovrebbero concorrere per la propria parte, secondo un criterio progressivo. Perché non studiare e proporre, a viso aperto, una tassa di scopo di uno o due anni dichiaratamente finalizzata alla fuoriuscita dal dramma sociale prodotto dalla pandemia?

Si richiede di reimpostare un vero e proprio patto sociale e fiscale. Aiutare chi non ce la fa non è anch’esso un principio non negoziabile per un buon cristiano? Ci si può contentare del soccorso volontaristico dei più generosi e solleciti o non si devono attivare le leve della “carità politica” e dei suoi strumenti universali quale appunto il fisco? Chi lo può proporre se non la Chiesa, per missione tenuta a proclamare verità e giustizia costi quel che costi?

Terza questione: l’inverno demografico. A riguardo l’Italia vanta un triste primato. È forse il più eloquente indicatore di un deficit di fiducia nel futuro. Un indizio della decadenza della nostra civiltà. Un serio problema umano e sociale, ma anche economico, che nuoce alla stessa crescita. È noto che a produrlo operano ragioni di natura culturale. Ma vi sono anche responsabilità in capo a politiche pubbliche inadeguate o omissive. La disoccupazione e la precarietà del lavoro giovanile che inibiscono progetti di vita, il deficit di sostegni, monetari e non, alle famiglie, la difficile conciliazione tra tempi di vita e di lavoro (cruciale soprattutto per le donne lavoratrici, in Italia particolarmente penalizzate e mai come oggi sospinte fuori dal mercato del lavoro), l’insufficienza di asili nido, la concreta impossibilità per i giovani di acquistare casa.

I cittadini di domani

Quarta priorità: la giustizia tra le generazioni. Sarebbe bello che, nella messa a punto del Recovery plan, significativamente titolato Next Generation EU, la Chiesa italiana si impegnasse a dare un suo contributo. Di riflessione, di proposta, di vigilanza critica. Affinché davvero quel piano, destinato a disegnare un nuovo volto del nostro paese, sia interamente orientato a quell’obiettivo.

Esemplifico. A parole, tutti ne fanno cenno, ma non si fa nulla per porre un argine all’impennata del debito pubblico che peserà su più generazioni. Anche qui si discute di debito buono e di debito cattivo, di assistenza e investimenti. Ma a fare problema è il debito come tale e la sua proiezione temporale. La politica, ossessionata dal consenso a breve, non se ne cura per davvero. Sotto la voce giustizia tra le generazioni vanno inscritti la povertà educativa, l’analfabetismo funzionale, l’abbandono scolastico in vaste aree del paese.

Sono solo esempi. Altri se ne possono aggiungere. L’importante è il principio e cioè l’idea che, in questa congiuntura critica, la Chiesa italiana, con e attraverso la vostra voce, non faccia mancare la sua parola, la sua testimonianza, il suo schietto giudizio sui problemi che affliggono la società in una prospettiva evangelica. Con intelligenza, libertà e coraggio. A valle di una riflessione e di un confronto partecipato dentro la comunità. Che, già di per sé, sarebbe un attestato utilmente controcorrente rispetto al tenore leggero e sloganistico che contrassegna il dibattito pubblico affidato ai social media e ai talk show tv.

Un pensare e un camminare insieme – appunto sinodale e storicamente situato – da parte di una Chiesa estroversa che si fa compagna di strada delle persone e delle comunità che sono in Italia.

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