UN RITORNO ALL’ESSENZIALE
E ALL’ANNUNCIO DEL VANGELO
Va avviata una dieta pastorale che non riguardi solo le strutture
di Erio Castellucci, vescovo di Modena-Nonantola
«Neanche un prete per chiacchierar»; «e anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto a
una certa età». Le voci inconfondibili di Adriano Celentano e Lucio Dalla scattano due rapide istantanee sulla figura del prete, puntando l’attenzione su due aspetti rilevanti: il calo delle vocazioni e la scelta del celibato.
Se Azzurro (1968) rifletteva la situazione dell’oratorio, dove di solito un prete giovane animava i pomeriggi dei ragazzi, L’anno che verrà (1979) sembra profetizzare le polemiche degli ultimi mesi a seguito del Sinodo per l’Amazzonia.
Sono, infatti, queste le due “emergenze” che ormai da tempo l’opinione pubblica coglie nella figura dei preti. Effettivamente, il calo numerico, anche in Italia, si presenta evidente, fino ad assumere in alcune zone i tratti di un crollo, senza poter immaginare a breve un’inversione di tendenza.
E la scelta celibataria, benché da alcuni collegata indebitamente ai casi di pedofilia, è certamente più difficile per molti e meno comprensibile rispetto a decenni fa, anche a motivo del diffuso
clima edonistico.
In che senso, dunque, il prete è una figura “in veloce trasformazione”?
Limitandoci al nostro Paese, possiamo dire che lo è per il semplice fatto che la società sta velocemente mutando: e il prete non può rimanere “immobile”, perché il ministro ordinato è a servizio
della comunità. Il prete non è un soldato posto a difesa di un bastione, ma è un fratello maggiore posto a custodia di una famiglia.
Mentre una fortezza rimane stabile e richiede al massimo qualche restauro, la famiglia è segnata da cambiamenti continui. Il prete, quindi, deve cambiare, perché cambia la comunità della quale si
è posto a servizio. Se vuole farsi testimone efficace di un Vangelo perenne, deve accogliere la sfida di annunciarlo, in modo rinnovato, nei sentieri e negli angoli sempre mutevoli della storia.
Anche in Italia è mutato lo scenario complessivo. Al Convegno di Firenze (2015), Francesco ci ha ricordato che non stiamo vivendo una semplice epoca di cambiamenti, ma un vero e proprio cambiamento d’epoca. È finita l’epoca della “cristianità”, come ha ribadito alla Curia
romana nel dicembre scorso. Probabilmente sta mutando il concetto stesso di “uomo”, si sta diffondendo un’antropologia che non lo riconosce più spontaneamente come persona dotata di un’intrinseca dignità. E si confondono anche i confini dell’umano, da una parte con quelli della macchina e dall’altra con quelli del resto della natura. Fatichiamo a prendere atto di questi
scenari, effettivamente inquietanti. Ed esitiamo, quindi, ad assumere nuovi stili pastorali.
San Paolo si colloca tra gli “amministratori dei misteri di Dio” (cf 1Cor 4,1). Per lui “amministrare” rimandava all’annuncio del Vangelo.
Oggi un presbitero o un vescovo, quando si qualificano “amministratori”, pensano a tutt’altro: al bilancio, alla gestione della casa canonica, alla manutenzione della chiesa (o, più spesso, delle chiese)… La stessa parola è scivolata dal contesto della missione a quello della gestione.