IL PASTORE CHE DA LA VITA PER IL GREGGE
La quarta domenica di Pasqua è generalmente conosciuta come la domenica del “buon pastore”, a motivo del testo liturgico che presenta il famoso discorso di Gesù, nel quale egli approfondisce il tema del pastore e del gregge, mettendo soprattutto in luce, in contrasto con quanti prima di lui hanno avuto a che fare con le pecore, le prerogative che gli competono in quanto pastore. L’immagine ha una lunga tradizione nel mondo dell’antico vicino oriente e soprattutto in quello veterotestamentario (si pensi al Pastore escatologico di Ez 34).
Da che cosa si determina l’autenticità del pastore? Dalla disponibilità a dare la vita. Colui che non è pastore utilizza le pecore per affermare se stesso. Il buon pastore, invece, - cioè il pastore “generoso”, “ideale”, “genuino” - si mette completamente a disposizione delle pecore, perché “depone la vita per le sue pecore”. Si noti come tale espressione, pur con qualche variante, viene ripetuta per ben quattro volte nel brano (vv. 11.15.17.18). Il verbo “(de)porre” è usato nel senso di offrire in modo consapevole e libero. Esso richiama il gesto compiuto da Gesù nell’ultima cena quando ha deposto la sua veste e poi, dopo aver lavato i piedi ai discepoli, l’ha ripresa (cf. 13,4.12). Con questo parallelismo l’evangelista intende richiamare il fatto, esplicitato nei versetti successivi, che, dopo aver dato la propria vita, l’ha poi ripresa nella risurrezione.
Al buon pastore si contrappone il mercenario, il quale, svolgendo il suo compito solo per ottenere un salario, di fronte al pericolo fugge e abbandona le pecore. La differenza sta tutta qui: il mercenario pensa solo ai propri interessi, il buon pastore è preoccupato solo della vita delle pecore. Proprio perché le pecore avvertono il battito del cuore del buon pastore, esse vivono della sua conoscenza. Ciò apre gli occhi e il cuore: è l’evento del dare la vita per le pecore ad aprirci all’autentica conoscenza di Gesù e in Gesù al suo rapporto con il Padre.
In questa conoscenza poi ci si accorge che tutti gli steccati, i confini che noi possiamo porre, crollano quasi da se stessi, perché il cuore del Figlio è un cuore che travalica tutti i nostri limiti. Gesù dice infatti: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. Se ci si pensa bene, è il comandamento dell’amore, l’amore universale, vissuto nella pienezza della libertà.
Nel commento al nostro brano, s. Agostino, presentandosi al popolo con i suoi presbiteri, diceva così: “Pascimus vobis (siamo pastori per voi) et pascimur vobiscum (siamo nutriti con voi); det utinam Dominus eam amandi vim ut pro vobis aut effectu mori possimus aut affectu (il Signore ci dia la forza di amarvi a tal punto da poter morire per voi, o effettivamente o affettivamente)” (cit. in PdV 25).