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Francavilla al Mare - Chieti

RICONOSCERSI IN UNA DONNA

DAL SITO SETTIMANANEWS

Riconoscersi in una donna

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Mi è stato suggerito di parlare di Michela Murgia, nonostante su di lei sia già stato speso un fiume di parole, perché posso farlo da credente e da teologa ma, soprattutto, da amica. Questo infatti siamo state intensamente. L’una per l’altra.

Un bellissimo libro che ho avuto modo di leggere quest’estate mi offre d’altra parte una chiave di lettura particolare per un evento – la morte di Michela e, in particolare, il suo congedo con un funerale tanto religioso da essere politico e tanto politico da essere religioso – di cui è stato detto tutto il male possibile da chi non l’ha conosciuta né c’era e che resta invece impresso nella mente e nel cuore di chi c’era come un momento alto di fede in Dio e negli «uomini che egli ama» (Lc 2,14). Comprese, magari, anche le donne!

Lo ha scritto con grande efficacia Antonio Autiero su La Stampa del 15 agosto: quando le parole della liturgia e il racconto della vita, sia pure in modo ancora un po’ incerto e goffo forse, si snodano le une accanto alle altre e si intrecciano le une alle altre, il popolo piange e dice amen perché si crea la comunità di coloro che sentono di essere lì perché sono stati «convocati»: dalla vita e dal Dio della vita.

Del resto, nel libro della legge di Mosè che viene proclamata da Esdra, sacerdote e scriba, a coloro che erano tornati dalla deportazione non ci sono certo scritti solo i dieci comandamenti, possibilmente nella versione del Catechismo di Pio X come alcuni similcredenti analfabeti biblici pretendono, ma si tratta piuttosto, come ritengono alcuni studiosi, del Pentateuco attuale dove sono raccolte, accanto a tante norme, anche tante storie, più o meno mitiche e, soprattutto, più o meno edificanti e tante aspirazioni intramontabili. Ed è a tutto questo grande racconto che il popolo dice «amen» piangendo (Ne 8,1-8).

Apoteosi

Un libro – dicevo – ha ispirato queste righe, Immortali per caso. Uomini diventati divini senza volerlo (Bollati Boringhieri 2023), in cui la storica Anna Della Subin analizza con competenza e acume critico il fenomeno dell’apoteosi, quella pratica conosciuta da tutte le diverse culture più antiche ma che ha visto un enorme incremento, in età moderna, cioè da quando Cristoforo Colombo sbarcò nel Nuovo Mondo, perché mai come in età moderna e contemporanea il pianeta ha visto la nascita di tante divinità involontarie.

«Il dio accidentale infesta la modernità», afferma Subin, e ci conduce dentro la ricostruzione di queste pratiche ascensionali attraverso cui «Lui – perché è sempre un lui – avanza sconcertato fin nel XXI secolo, inseguendo un’autorità secolare e ritrovandosi invece sacralizzato. Appare in ogni continente della mappa, in tempi di invasione coloniale, lotta nazionalista e agitazione politica» (p. 17).

D’altra parte, lo hanno detto alla radio solo pochi giorni fa che i fan di Andy Warhol dal 1987 portano ogni anno sulla sua tomba barattoli di zuppa Campbell, per non parlare di quanto succede, ormai da 46 anni, nell’anniversario della morte di Elvis Presley. Ma Subin parla addirittura di un certo culto fiorito intorno alla figura di Filippo di Edinburgo.

Non entro nei percorsi complessi attraverso cui un gruppo umano costruisce le proprie apoteosi. Né, tanto meno, nella questione altrettanto complessa del processo di apoteosi che ha portato Gesù di Nazaret a essere colui che siede alla destra del Padre e verrà nell’ultimo giorno a giudicare vivi e morti.

I teologi sanno molto bene che l’intreccio tra evocazioni tratte dalle religioni antiche, elaborazioni teologiche del tutto originali, massicce implicazioni politiche e ricadute etiche ha concorso a fare di quell’apoteosi del profeta di Galilea il momento originante di una fede che è riuscita ad attraversare epoche e culture in modo singolarmente differente da altre apoteosi religiose. Né è stata condannata all’oblio, ma anzi continua ad intercettare aspirazioni alla salvezza, aspettative di giustizia, inesauribili risorse di amore fraterno.

Mi interessa riflettere invece sulla necessità che il funerale di Michela Murgia ha fatto emergere con forza e mostrato in tutta evidenza. La necessità di riconoscersi in un personaggio, in un percorso umano molto singolare ma, al contempo, di pubblica proprietà perché tutti hanno potuto attingere a quello che era, pensava, diceva e scriveva, a una figura che ha riscattato la politica sia civile che religiosa in un momento in cui essa, ormai incagliata nelle secche non solo economiche, ma soprattutto progettuali, è incapace di riforme ed ha tradito ogni anelito collettivo ed eroso ogni speranza. E di riconoscersi, finalmente, in una donna!

Il giorno non è lungo abbastanza

Non si tratta né di esaltazione né di alienazione. Anzi. Se il New York Times ha dedicato alla scrittrice i cui libri sono stati tradotti nelle più svariate lingue del mondo la sua prima pagina mentre nel piccolo mondo di un’Italietta litigiosa le vengono quotidianamente lanciate palate di insulti, questo dice poco su di lei, molto su di noi.

Dice molto su questo atteggiamento – non me la sento di chiamarla cultura – che si spaventa di fronte all’originalità di un pensiero, alla provocatorietà di una critica, al coraggio di un’indicazione di percorso, soprattutto se essi impongono di andare oltre qualsiasi status quo, ingiusto per statuto storico, verso una realtà un po’ più giusta e più bella per gli esclusi dai banchetti della vita.

Un atteggiamento che viene da lontano, ma che fa ormai letteralmente implodere i social e incide in modo preoccupante sulla costruzione di un comune orizzonte di senso e di un condiviso sentire democratico. E che non va confuso con la diversità delle opinioni, la dialettica delle argomentazioni o il confronto delle convinzioni perché è radicato solo nella paura di perdere i propri privilegi.

Nessuno in quella Chiesa degli artisti o fuori di essa, fosse o meno credente, ha pensato per un attimo che Michela non fosse, come tutti gli umani, carica di contraddizioni, capace di ingenerare, a seconda dei momenti e delle situazioni, sia empatia che antipatia, oppure che le sue parole non fossero tanto graffianti che lenitive.

Nessuno l’ha «divinizzata» perché la sua apoteosi raccontava di noi, prima ancora che di lei. Del nostro desiderio che qualcuno ogni tanto ci presti pensieri e parole per volare alto, del nostro bisogno di non perdere la fiducia nel genere umano e nella sua storia, della necessità di voci che indichino la strada e di profezie che segnino i cammini.

Quel silenzio commosso che ha «fatto compagnia» alla bara per più di mezz’ora prima che iniziasse la celebrazione, quella partecipazione nelle risposte e nei canti divenuta ormai merce rara nelle nostre liturgie funebri, quella piazza capace di restare muta, ma anche di far sentire la propria partecipazione a un rito da cui era stata purtroppo esclusa esplodendo in interminabili applausi hanno scritto una pagina della riflessione spirituale di Michela Murgia che conosceva troppo bene la Bibbia per non sapere che teologia e liturgia sono espressioni politiche. E non ne aveva paura.

Un’amica mi ha inviato una poesia del poeta giapponese Matsuo Bashò che, in soli tre versi, dice tutta la mia gratitudine per averla avuta come amica e il mio dolore per averla persa:

«L’allodola canta per tutto il giorno
e il giorno non è lungo abbastanza
».

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