Parrocchia 
Santi Angeli Custodi

Francavilla al Mare - Chieti

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (LC 15,1-32)

La parabola della pecora perduta, della dracma perduta, del figlio  perduto…e ritrovati (Lc 15,1-32) | nuovozenith

UNA MISERICORDIA CHE URTA I GIUSTI

           

Il capitolo 15 di Luca, che oggi viene proclamato nella liturgia, è conosciuto come il capitolo delle parabole della misericordia. I primi due versetti costituiscono lo sfondo di comprensione di tutte e tre le parabole: una scena di simposio di Gesù con i peccatori. Questo maestro amico dei pubblicani e dei peccatori provoca critiche nell’ambiente dei “giusti”.

Si noti l’accento sull’uno-solo che attraversa le tre parabole: una pecora su cento, una moneta su dieci, un figlio su due. Tutto si concentra intorno a quell’“uno solo” che si perde! Il Dio di Luca è quello che si occupa dell’unico uomo o dell’unica donna che si perde in mezzo a una moltitudine. Forse per questo François Mauriac ha scritto: «Il Dio lucano ci ha insegnato che non dobbiamo irridere il pianto dei bambini!».

Tutto il racconto è coagulato poi attorno al motivo “perdere”/“trovare”: si tratta di una pecora perduta che il pastore cerca “finché non l’abbia ritrovata”, di una moneta perduta che una donna cerca e ritrova, di un figlio che “era perduto ed è stato ritrovato!”. Un altro motivo ricorrente è quello della gioia per il ritrovamento avvenuto; forse è meglio dire della condivisione della gioia. Al v. 6 la reazione del pastore sembra perfino poco realistica: invece di portare la pecora nel deserto dove aveva lasciato le altre 99 convoca amici e vicini (da dove vengono?) per festeggiare, dicendo: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». E così la gioia della donna che ritrova la moneta viene condivisa con le amiche e le vicine.

Ma ciò che più di ogni altro aspetto ci colpisce di questa pagina è il volto di Dio che emerge soprattutto nell’ultima parabola, composta da due scene antitetiche: quella riguardante il figlio minore e quella riguardante il figlio maggiore; il vero perno che unisce le due scene è proprio la figura del padre. Manca la madre in questa famiglia, ma i tratti di Dio sono più femminili che maschili: per descrivere la sua commozione viene utilizzato il verbo splanchizomai, un verbo che evoca le viscere materne, l’utero, la sede dei sentimenti e degli affetti nella mentalità ebraica. Questo padre non solo si commuove, ma pur anziano gli corre incontro, si getta al collo e lo bacia, quasi non lo lascia parlare e gli offre l’abito migliore, l’anello della dignità filiale ritrovata, i calzari dell’uomo libero… Diciamo la verità: un troppo che urterebbe chiunque o, comunque, che urta certamente chi misura gli atteggiamenti con il compasso di un minimo senso di giustizia. Ma proprio qui è il punto: il prodigo rappresenta l’uomo peccatore che non ha niente da offrire, nessuna prestazione da esibire… Il Padre in fondo ha una “giustizia” tutta propria. Questa giustizia si chiama “misericordia”, scandalosa per i “giusti” che di fronte a ciò diventano aggressivi: “questo tuo figlio”; e il padre risponde: “questo tuo fratello”.

Torna alla mente il famoso monologo di Marmeladov in “Delitto e castigo” di Dostoevskij: «E allora Cristo ci dirà: “Venite anche voi, tutti voi, voi beoni, voi fiacchi, voi dissoluti…”. Allora i giusti protesteranno e i prudenti resteranno perplessi: “Ma, Signore, accetti anche loro?”. E il Cristo dirà: “Se li accetto, signori giusti, se li accetto, signori prudenti, lo faccio perché nessuno di loro se ne è mai giudicato degno”. E ci stenderà le mani, ci aprirà le braccia e noi cadremo ai suoi piedi e capiremo tutto. Sì, allora capiremo tutto…».

 

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